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Da const.


2022 02 05[modifica | modifica sorgente]

Due anni fa scrissi questo pezzo che, a due anni di distanza, dolorosamente sottoscrivo. Pare che Scirè avrà un contratto biennale in Università. La cosa è positiva dal punto di vista simbolico, ma non muove di molto la mia riflessione. Domani ci sarà una puntata di Presadiretta sul malfunzionamento dei concorsi universitari: la vedrò nei prossimi giorni, con calma. Ero stato contattato anch'io dalla Rai ma ho chiesto che venisse lasciato spazio a casi più eclatanti del mio. Io, pur avvertendo una perpetua punta di dolore, ho scelto di recuperare faticosamente equilibrio altrove e considero quel fattaccio una storia conclusa. E sono convinto di non aver perso, almeno in termini di salute.

"DEL SACRIFICIO (E) DELL’EROE Giambattista Scirè patisce una delle ingiustizie più cocenti che l’Università italiana abbia generato. Non che ne lesini, in genere. Ma la maggior parte sono ingiustizie “di sistema”. Lordure tecnicamente leggere, superficiali che pure mortificano percorsi, distruggono vite, imprimono traiettorie impazzite alle carriere ma che, all’atto dell’analisi, sono illeciti amministrativi. Come se fosse poco. Ma a Scirè l’hanno fatta grossa. Perché il suo concorso non è stato vinto da qualcuno appena più raccomandato o da un figlio ben pasciuto alla scuola del padre. È stato vinto da una candidata che stava a quel concorso come una ciliegina candita su un piatto di lasagne. La procedura, bandita per Storia Contemporanea, è stata vinta da una laureata in Architettura. Basta dire questo. Un concorso, per altro, per un posto che in Sicilia definiremmo “babbo”: un contratto triennale, non il lavoro della vita ma uno di quei tasselli che un ricercatore mette in fila per poter diventare professore universitario. Una volta ingiustamente sconfitto, Scirè ha, sempre per dirla alla siciliana, “armato un bordello”, espressione regionale che descrive benissimo la situazione. Ha avviato dei ricorsi, li ha vinti tutti; un procedimento penale, lo ha vinto; ha messo in mezzo le televisioni e i giornali, quelli di destra, di sinistra e di centro; è andato a trovare i politici, di destra, di sinistra e di centro; ha scritto al Presidente della Repubblica; ha fondato un’associazione che si chiama Trasparenza e Merito e segnala irregolarità nell’università. Ha fatto molte amicizie, ne ha rotte parecchie; ne ha fatte altre e si è anche trovato tanti nemici nuovi, accanto ai vecchi. Ha messo in crisi rapporti personali e si è ammalato di depressione, come lui stesso ha ammesso. Si è risollevato. Per adesso sta bene, e ne siamo felici: lotta come fa da nove anni a questa parte. Giambattista Scirè ha mobilitato molte coscienze. Ha fatto conoscere alle persone lontane dal mondo accademico cosa può succedere nelle sue segrete stanze. Domanda cruciale: è riuscito a cambiare qualcosa? Sinora possiamo dire, senza tema di smentita, no. L’Università di Catania ha disatteso tutte le sentenze in suo favore e, uno scandalo dopo l’altro, ha dimostrato che il caso Scirè non la scalfisce. Del resto, questo è solo uno dei tanti scandali che la riguardano. E, come accade a Catania, succede in tutte le altre Università: inchieste, polveroni, scandali, qualche piccola testa che rotola sul tappeto. E poi tutto ritorna come prima. L’Italia è stata in grado di istituire il Maxiprocesso e Mani Pulite ma contro le baronie universitarie non riesce a fare nulla. Se qualcosa un giorno dovesse cambiare, Giambattista Scirè potrebbe dire “è anche merito mio” e nessuno potrebbe negarlo. La nuova domanda che mi pongo adesso, però, è tremenda: vale la pena di essere Giambattista Scirè? Più tremenda temo possa esserne la risposta. Giambattista Scirè, come tutti i combattenti in carne ed ossa, rappresenta una vita. Genitori, partner, figli. Questa battaglia, che pone sul piatto della bilancia dei costi un logoramento fisico e psicologico che potrebbe essere estremo, cosa può mettere sul piatto della bilancia dei benefici? Sul piano personale gli ha già fruttato un risarcimento in denaro, sebbene sia una cifra irrisoria rispetto a quanto speso nel corso degli anni. A questo, nel migliore dei casi, potrebbe aggiungersi un’effettiva legittimazione del suo ruolo e l’ingresso con un contratto a tempo determinato all’Università. Bene, e poi? Andiamo oltre e auguriamogli che la visibilità prodotta riesca a guadagnargli un ruolo politico, sempre che lo voglia: questo basterebbe a risarcirlo della salute persa? Al livello sociale, la sua battaglia non ha cambiato quasi nulla. Sì, adesso molti più di prima sanno quant’è marcio il mondo dell’Università. Ma, in soldoni, è poca cosa: chi quel mondo lo frequentava, lo sapeva già da prima. All’atto pratico, tanta polvere, tanto coraggio, tante belle parole ma l’Università continua a funzionare e a prosperare nella inopportunità, quando non nella illegalità. I ricorsi fioccano e magari si vincono ma le commissioni trovano un escamotage, il più delle volte legale, per far rivincere il concorso a chi è stato sconfitto in tribunale. Nel sistema universitario, infatti, bisognerebbe cambiare la legge sul reclutamento. Ma nessuno, tra chi le leggi le fa, ha interesse a farlo. A conti fatti, dunque, troviamola la risposta alla domanda. Vale la pena di essere Giambattista Scirè? La risposta è no. Non ne vale la pena, in Italia nel 2020. Come non valse la pena, trent’anni fa, essere Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Mi si perdoni l’accostamento e gli si restituisca la sua dimensione. Stiamo comunque parlando di persone che combattono una stortura del sistema e chi conosce il mondo universitario sa quanti punti di contatto, dalla figura del barone-padrino dispensatore di favori e pacificatore di controversie sino all’emarginazione del “pentito”, vi siano tra i due sistemi. Dimenticando solo per un attimo i discorsi politicamente corretti, possiamo davvero credere che oggi Paolo Borsellino guarderebbe con piena indulgenza all’accadimento di aver lasciato una moglie e tre figli ancora giovani per saltare in aria senza che davvero nulla sia cambiato? E anzi, i fatti seguiti alle stragi di Capaci e via D’Amelio hanno dimostrato come quel sacrificio sia stato propedeutico al degenerare dei rapporti di forza tra Stato e Cosa Nostra. La dirò grossa: io sono convinto che un uomo di grande intelligenza come Borsellino avesse capito che la sua battaglia era stata persa ma lo fece quando ormai era troppo tardi e allora andare incontro al martirio è stata per lui l’unica alternativa al fingersi pazzo o a fuggire sotto mentite spoglie in un’isola del Pacifico. E in entrambi i casi, sapeva che i suoi nemici lo avrebbero trovato comunque. Perciò ha scelto di mantenere alta la fronte sino all’ultimo. Voglio davvero attirarmi gli strali di tutti quelli che vorranno strumentalizzare le mie parole e perciò farò un ultimo riferimento ad altri eroi del sacrificio inutile. Convenne agli eroi della nostra Resistenza far saltare le camionette tedesche, ben sapendo che la rappresaglia dei nazisti sarebbe caduta sulla popolazione civile dei piccoli centri dell’Appennino, inclusi i parenti degli stessi attentatori? Siamo così sicuri che i capi partigiani non si rendessero conto che il prezzo di sangue pagato in quella circostanza non avrebbe pesato sul piatto della bilancia dei benefici tanto quanto l’intervento degli Alleati che, visto l’andamento del conflitto, era abbastanza evidente che avrebbero comunque liberato l’Italia? Allora, mi si dirà, se non vale la pena essere partigiani, Borsellino e neanche Scirè allora è meglio essere dei codardi? No. Giammai. Ritengo che ciascuno debba seguire la strada che gli indica la propria coscienza e mai fare un passo indietro perché “così conviene”. Voglio però affermare che una mente razionale non deve perdere di vista quella bilancia: costi personali / benefici personali e sociali. E ricordarsi di chi c’è su quel primo piatto. Non solo la propria persona e la propria salute, ma quella dei propri familiari. I nostri figli, il loro futuro, la loro serenità e il loro equilibrio dipendono da noi. I nostri genitori, quando ci hanno cresciuti dedicandoci la loro cura, meritano di essere ripagati con la stessa moneta. I nostri figli sono la luce dei nostri occhi e noi siamo la luce degli occhi dei nostri genitori. Questa corrispondenza amorosa, va detto, non sempre è vera e assai più leggera è, per fortuna o purtroppo, la bilancia di chi non ha o non attribuisce un grande valore individuale a chi gli è prossimo. Se davvero il proprio martirio può salvare il mondo, non c’è famiglia o altra remora che tenga. Ma guardo sempre con preoccupazione e apprensione umana agli eroi che combattono le battaglie di autoconsunzione a beneficio zero o zero virgola."